Studio Rossi Napolitano

Trascrizione del testo

Caro Lucilio,
Oggi voglio parlarti del desiderio, quella forza che i moderni sembrano aver dimenticato o, peggio, temere. Mi scrivi di sentirti vuoto, privo di slancio, come se la vita ti scivolasse addosso senza lasciare traccia. Non sei solo in questa condizione, amico mio. La tua generazione sembra aver smarrito l’arte del desiderare.
Ricordi l’etimologia della parola desiderare? Viene da de-sideribus, “dalle stelle”, “cessare di contemplare le stelle”. Gli antichi navigatori, quando perdevano di vista le costellazioni che li guidavano, dicevano di “desiderare” – sentivano la mancanza di quei punti luminosi che orientavano il loro cammino. Ecco cosa è il vero desiderio: la nostalgia di una guida perduta, la tensione verso ciò che può illuminare il nostro percorso.
Aristotele, nel suo acume, definiva l’uomo come “desiderio intelligente”. Non puro istinto, non cieca brama, ma desiderio guidato dalla ragione. Questo mi trova in accordo, anche se da stoico devo precisare: il desiderio virtuoso è quello che si dirige verso ciò che dipende da noi, verso la nostra crescita interiore, verso la saggezza. È desiderio di eccellenza morale, non di possesso esteriore.
Il tuo contemporaneo Recalcati parla del “dovere del desiderio”, e anche qui, pur con le debite distinzioni, posso concordare. Sì, Lucilio, abbiamo il dovere di desiderare – ma cosa? Non i beni effimeri che la società ci propone, non il successo mondano che si dissolve come nebbia al sole. Abbiamo il dovere di desiderare la virtù, la sapienza, la libertà interiore.
Perché la tua generazione ha smesso di desiderare?
Ave.
Seneca