Studio Rossi Napolitano

Trascrizione del testo

Caro Lucilio,
“Non sopporto di stare solo”, mi confessi. “Quando mi trovo senza compagnia, senza messaggi, senza la costante connessione che il mio dispositivo offre, mi sento inquieto, quasi in preda al panico”.
Questa tua confessione mi turba profondamente. Gli stoici hanno sempre considerato la capacità di stare in solitudine come un segno di saggezza e forza interiore. “Mai sono meno solo che quando sono solo”, diceva Catone. Eppure, nella tua era di connessione perpetua, la solitudine sembra essere diventata una condizione da evitare a tutti i costi, quasi una malattia da cui fuggire.
La vera solitudine, Lucilio, non è assenza di connessione, ma presenza a se stessi. È in questi momenti di quiete che l’anima può finalmente sentire la propria voce, che la mente può elaborare le esperienze accumulate, che la saggezza può germogliare dal terreno fertile della riflessione.
Ti propongo questa pratica: inizia con brevi periodi di completa solitudine. Dieci minuti, poi venti, poi un’ora. Senza dispositivi, senza distrazioni, solo tu con i tuoi pensieri. All’inizio sarà difficile – la mente abituata alla costante stimolazione si ribellerà. Persisti. Gradualmente, scoprirai che la solitudine non è un vuoto da riempire, ma uno spazio da abitare.
Usa questo tempo per dialogare con te stesso, per scrivere un diario, per contemplare la natura, per riflettere sulle grandi domande che la vita pone. Questi sono i veri nutrimenti dell’anima, che nessuna connessione digitale può sostituire.
“La folla è nemica della verità”, ti scrissi un tempo. Oggi aggiungo: la connessione costante è nemica della profondità.
Verso una solitudine feconda, Seneca